Un'altra nave umanitaria, l'irlandese Rachel Corrie, che si dirigeva a Gaza per portare aiuti è stata intercettata e viene scortata da stamattina dalla flotta israeliana con la richiesta di fare rotta verso il porto di Ashdod e lì depositare il suo carico che, previo controllo, sarà poi distribuito agli assediati della striscia. Il primo ministro irlandese aveva provato nella notte ad ottenere il permesso dal governo israeliano per l'apertura di un corridoio che permettesse agli stessi membri dell'equipaggio - tra cui un premio nobel per la pace e altre influenti personalità del mondo politico internazionale - di raggiungere Gaza e consegnare gli aiuti direttamente alla popolazione, sempre tenendo ferma la necessità di attraccare prima in terra israeliana. Ma gli attivisti rifiutano (Rainews24). Non si può che sperare in un diverso epilogo.
A pochi giorni dalla tragedia della Freedom Flottilla, con la morte accertata di almeno 9 attivisti turchi - ma secondo gli attivisti italiani che hanno testimoniato l'accaduto un numero pari o maggiore di vittime sarebbe stato gettato a mare e per questo non ancora ritrovato - che ha sollevato critiche generalizzate sull'eccesso muscolare dell'intervento israeliano, persino da parte degli US, notoriamente morbidi in materia, il governo israeliano mostra di non essere disposto a transigere su nessuna violazione dell'assedio di Gaza.
Come fa notare brillantemente Moni Ovadia, tacciato seppur ebreo di antisemitismo (come molti altri esponenti del mondo intellettuale ebraico, i famosi "ebrei che non amano gli ebrei") un assedio non può in nessun modo essere considerato uno strumento difensivo in nome della sicurezza statale, un assedio come quello perpetrato ai danni della popolazione di Gaza è un atto di guerra che non può che provocare un'escalation della violenza.
A tutt'oggi non esiste un piano di pace di matrice israeliana, nè tantomeno una "road map" per l'istarurazione di uno stato palestinese: il governo di Israele continua a comportarsi come se i palestinesi, aggrediti, vessati, umiliati in ogni modo, prima o poi scompariranno assicurando la purezza razziale dello stato - continua Ovadia. Sottolineo il "come se" perché il riconoscimento di una strategia premeditata volta a questo obiettivo non potrebbe che essere considerata, alla luce delle dirittive Onu e dei parametri del diritto internazionale, come una politica espressamente mirata al genocidio del popolo palestinese.
Israele sembra non avere il coraggio, prima che la volontà, di riconoscere gli errori fin qui commessi e il graduale deterioramento della questione palestinese che, lungi dall'essere sanata, dopo 60 anni si ritrova peggiore che mai. L'idolatrazione della sicurezza nazionale come obiettivo da perseguire ad ogni costo e con ogni fine è stata indiscriminatamente usata da ogni schieramento politico per vincere le elezioni, salvo poi non produrre alcun risultato apprezzabile e ha anzi provocato un irrigidimento del fronte palestinese e il suo slittamento nelle mani del braccio armato di Hamas.
Eppure sono molti i moderati sia israeliani che palestinesi, all'interno come fuori dai confini dello stato, che chiedono una soluzione pacifica del conflitto e che si battono giorno dopo giorno per non essere risucchiati dalla violenza, dal pregiudizio, dal sospetto dell'altro. Una piccola comunità della Cisgiordania ha intrapreso da anni un percorso non violento di resistenza all'aumentare della pressione dei coloni: ad At-Twani la gente si batte con cortei e manifestazioni pacifiche per il diritto dei loro figli di andare a scuola senza essere aggrediti a sassate dai coloni ebrei che incontrano lungo il loro cammino di svariati km. I volontari italiani di Operazione Colomba li sostengono da anni con la loro costante presenza, 365 giorni all'anno.
Rifiutare persino il diritto agli aiuti umanitari, anche questo sancito dall'Onu, è un atto di deliberata soppressione dei diritti umani di una popolazione, oltreché di ogni spazio di dialogo: Israele oggi, prima che la Palestina, è ad un vicolo cieco.